La War On Drugs è una vera e propria guerra che da una parte ha clamorosamente falito il proprio obiettivo dichiarato, visto che il consumo di sostanze illegali non ha fatto altro che aumentare, ma che dall’altro continua ad essere combattuta col massimo dispendio di mezzi e di forze. Le leggi proibizioniste, da quando hanno iniziato ad essere varate, all’inizio del secolo scorso, hanno di fatto aumentato i danni prodotti dalle droghe, impedendo innanzittutto la diffusione di informazioni corrette e lasciando i consumatori in balia di quello che arriva dal mercato nero senza alcun tipo di controllo igienico. Questa Guerra fallimentare ha, però, nello stesso tempo dato un enorme potere bellico agli Stati che si traduce nell’esistenza di un capillare apparato di controllo diretto contro quelle fette di popolazione “pericolosa” considerate potenziale consumatrici di droga (gli stranieri, i giovani, gli alternativi etc), nell’incarcerazione di massa e nell’uso sempre più diffuso di violenze da parte delle forze di polizia. E come in ogni Guerra, il consenso alla War On Drugs è pilotato dalla disinformazione e dalla propaganda di regime, che occulta spesso le informazioni più significative, come quelle che state per leggere e che sono state praticamente ignorate dalla stampa “di carta” e anche da quella elettronica.
Amnesty International in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte il 10 ottobre ha dichiarato che “la pena di morte continua a essere utilizzata come strumento della cosiddetta ‘guerra alla droga’, con un allarmante numero di stati in tutto il mondo che mette a morte persone condannate per imputazioni legate alla droga, in palese violazione del diritto internazionale. Almeno 11 paesi in tutto il mondo - tra cui Cina, Indonesia, Iran, Malesia e Arabia Saudita - hanno emesso condanne capitali o messo a morte persone per reati legati alla droga nel corso degli ultimi due anni, mentre decine di stati mantengono la pena di morte per questi reati”. In Indonesia, per esempio, il governo del presidente Joko Widodo ha annunciato di utilizzare la pena di morte per combattere una ‘emergenza nazionale droga’. Quattordici persone condannate per reati legati alla droga sono state messe a morte sinora nel 2015 e il governo ha dichiarato che respingerà tutte le richieste di clemenza presentate da persone condannate per droga. L’Iran è al secondo posto per numero di esecuzioni al mondo, dietro la Cina (dove con i dati sulla pena di morte trattati come segreto di stato il numero esatto delle vittime del boia è impossibile da sapere), negli ultimi decenni ha messo a morte migliaia di persone per reati di droga. Le leggi sulla droga sono estremamente dure: una persona può essere condannata a morte per il possesso di 30 grammi di eroina o cocaina. Solo nel 2015, sono state effettuate più di 700 esecuzioni, molte delle quali ai danni di cittadini stranieri e di persone provenienti da ambienti socioeconomici svantaggiati. In Arabia Saudita, invece, le esecuzioni per reati legati alla droga sono salite alle stelle. Nel 2014, quasi la metà delle 92 persone messe a morte erano state condannate per reati legati alla droga. Il sistema giudiziario manca delle garanzie più elementari per garantire il diritto a un processo equo. Spesso le condanne a morte sono inflitte dopo procedimenti iniqui e sommari che si tengono, in alcuni casi, in segreto. Nel corso del convegno ‘Le droghe non temono la pena di morte’ organizzato a Roma da Amnesty International Italia e Iran Human Rights Italia è stato denunciato l’atteggiamento contraddittorio degli stati membri dell’Unione europea, che ufficialmente perseguono una politica abolizionista sulla pena di morte e nel frattempo finanziano i programmi anti-droga delle Nazioni Unite destinati a paesi, come l’Iran, che fanno un uso massiccio della pena di morte nei confronti dei reati di droga.
Tra i casi denunciati da Amnesty di persone che dovranno presto affrontare il boia per reati “di droga” c’è quello di Shahrul Izani che rischia il patibolo per essere stato trovato in possesso di oltre 600 grammi di cannabis all’età di 19 anni. Era stato arrestato il 25 settembre 2003 intorno alle 10, mentre era alla guida della moto del suo vicino di casa. Gli ufficiali di polizia avevano trovato nella moto due sacchetti di plastica contenenti 622 grammi di cannabis. Dopo aver trascorso più di sei anni in carcere in attesa di processo, Shahrul Izani è stato condannato per traffico di droga e di conseguenza condannato a morte dall’Alta corte di Shah Alam il 28 dicembre 2009. La Corte d’appello ha ascoltato e respinto il suo ricorso nello stesso giorno, il 12 ottobre 2011. Allo stesso modo, il 26 giugno 2012, la Corte federale ha sentito e respinto il suo appello. Nel 2014, Shahrul Izani ha presentato un appello per la clemenza dinanzi alla commissione dello stato di Selangor, ma il 1 ottobre scorso il ricorso è stato respinto ed ora può essere ucciso in qualunque momento.
Negli stati occidentali per bene dove la pena di morte non esiste si continuano ad ammazzare i drogati: proprio in questi giorni è uscito un rapporto indipendenti dei Medici per i Diritti Umani (MeDU) che dimostra come il decesso di Stefano Cucchi sia stato causato dalle torture fisiche e psichiche a cui era stato sottoposto dopo essere stato arrestato con venti di grammi di ganja. La guerra alla droga continuerà anche in Italia, in barba ai politicanti radicali e 5 Stelle che vanno in giro a raccontare che presto la (peraltro pessima) legge per la depenalizzazione della cannabis presentata da Della Vedova, SEL e M5S verrà approvata con un “blitz” a dicembre, come quella sulle unioni civili, che infatti viene rimandata di mese in mese. In un impeto di onestà intellettuale raro per un politico, lo ha ammesso anche il Senatore Luigi Manconi che in una trasmissione radiofonica ha dichiarato che “ad oggi si oppongono a questa legge molti parlamentari, piu’ di quanto si creda. La maggioranza dei parlamentari resta saldamente fuori dalla procedura di sottoscrizione del disegno di legge sulla legalizzazione delle droghe leggere”. E’ più probabile, invece, un ritorno a una maggior stretta repressiva se è vero, come denunciato da Fuoriluogo, che “circola con insistenza nei palazzi romani la voce che presso il ministero della Salute sia al lavoro una commissione per stabilire, rispetto alle diverse sostanze, le soglie quantitative al di sotto delle quali si presume che la detenzione sia destinata ad uso personale, stabilendo così una “soglia quantitativa” contrasta coi principi generali di penalità, perché inverte l’onere della prova sull’accusato, chiamato a fornire prove della destinazione per uso personale se detiene quantità maggiori”. Insomma, mentre gli ingenui credono alla legalizzazione nel prossimo futuro, Renzie e i suoi sodali stanno preparando il ritorno della Fini-Giovanardi.
robertino